PROLETARIATO E DIVISIONE DEL LAVORO
L’AUTORGANIZZAZIONE COME POTENZIALITA’
La divisione del lavoro è la questione centrale della rivoluzione. Riguarda il problema dell’organizzazione a tutti i livelli, quello dell’organizzazione del proletariato come movimento politico, quello dell’organizzazione della produzione nella società comunista, e quello dell’organizzazione politica e sociale nella stessa.
La prima questione che si pone è se nel comunismo la divisione del lavoro debba essere abolita. La risposta è chiara e immediata: la divisione del lavoro è nella società sviluppata la base della socialità. Nelle società tradizionali non era così: legami di sangue, lingua, e costumi tramandati da una tradizione conservatrice e indiscutibile erano il cemento che univa gli individui in gruppi sociali estremamente coesi. Anche se poi il legame fondamentale andava ricercato nella necessità di difesa contro popolazioni circostanti. Con lo sviluppo della società di classe questi rapporti naturali hanno assunto una importanza assai inferiore ai rapporti economici, che sono divenuti gli unici rapporti sociali necessari. Infatti la società capitalistica è costituita essenzialmente da individui che hanno fra loro come unici rapporti necessari quelli economici, e che sono per tutti gli altri aspetti della loro esistenza sociale assolutamente incondizionati. Quindi la risposta alla questione è che è impossibile abolire la divisione del lavoro perché è alla base del legame sociale nella società moderna. Ma la vera risposta è un’altra. La divisione del lavoro è la vera grande forza produttiva della società capitalistica, che l’ha sviluppata in una forma peculiare, la divisione del lavoro manifatturiera, che ha aumentato prodigiosamente la produttività del lavoro. Quindi tale abolizione sarebbe un atto regressivo, quindi impossibile secondo il materialismo storico, in quanto implicherebbe il crollo delle strutture produttive attuali e un ritorno alla barbarie. In verità il materialismo contempla questa possibilità, ma solo come conseguenza del fallimento di un processo rivoluzionario, eventualità che qui non prendiamo in considerazione, dato che postulato fondamentale di ogni discorso sulla rivoluzione è che questa sia inevitabile, anzi già in corso.
Quindi la divisione del lavoro va mantenuta come forza produttiva progressiva. Ma qui sorge immediatamente un altro problema. Se la divisione del lavoro va mantenuta deve esserci una divisione dei compiti tra dirigenti competenti ed esecutori dequalificati, con ruoli ben distinti e una gerarchia determinata. Allora anche qui il materialismo storico è chiaro: una classe e la sua proprietà sorgono e sono fondate sul ruolo economico assunto nella produzione sociale. Quindi lo svolgimento di un ruolo produttivo fondamentale conferisce necessariamente alla classe che lo svolge una posizione dominante. Originariamente nelle società precapitalistiche, cioè naturali, è la proprietà in quanto dominio fondato sulla forza militare che dava al signore il potere politico ed il ruolo di organizzatore del lavoro, per quanto piuttosto limitato. Ora modernamente si è verificato il processo inverso: il ruolo ha creato la proprietà. Il capitalista ha acquisito una posizione economicamente e socialmente dominante in quanto ha creato e applicato sempre più estesamente una forza produttiva di potenza incomparabile, la divisione del lavoro industriale. Questo è l’atto di nascita della grande borghesia industriale, processo che si è riprodotto nell’URSS in forma di una purezza cristallina nella trasformazione della burocrazia politica in borghesia.
In una società comunista è quindi necessario creare una divisione del lavoro che non produca fratture a livello sociale, cioè non produca la scissione della società in classi. Ciò in linea di principio non è impossibile in quanto oggettivamente nella divisione del lavoro tutti i compiti parziali sono tendenzialmente ridotti a semplici operazioni ripetute senza intervento discrezionale dell’operatore. Questo è vero anche per i compiti direttivi, per cui tutti i compiti sono di fatto equivalenti, o possono essere resi tali. Si tratta quindi di stabilire delle procedure in cui i processi decisionali si svolgano come sequenza di operazioni elementari, accessibili in linea di principio a chiunque possegga un minimo di preparazione, in modo che il risultato finale abbia il carattere dell’oggettività, cioè non dipenda da chi ha eseguito la sequenza di operazioni. E’ chiaro che l’intera procedura ha il carattere di un programma (carattere che proprio di ogni piano di produzione), che al limite può essere eseguito anche da una macchina. L’ organizzatore interviene solo nella elaborazione della procedura, poi scompare. Quindi il problema non sta tanto nell’esistenza di compiti direttivi, quanto proprio nell’esistenza dei dirigenti. Perciò il problema sta nell’eliminarli come ruoli speciali trasformando i processi decisionali in procedure impersonali collettive. Però questa è solo una soluzione di carattere tecnico, che per essere resa concretamente attuabile richiede l’esistenza di una serie di condizioni sociali che si possono riassumere nell’esistenza del comunismo realizzato. Ma il problema della necessità della divisione del lavoro si pone subito e con essa la necessità di una dirigenza. Ma se questa è necessaria il problema è quello di impedire che la dirigenza, se deve esistere, si trasformi in una classe di privilegiati.
ORIGINE DEL PRIVILEGIO
Se si vuole evitare che la divisione del lavoro generi una classe di privilegiati occorre creare una divisione del lavoro senza gerarchia, cioè una divisione del lavoro in cui i cooperanti si organizzino autonomamente, quindi una divisione del lavoro nella forma dell’autorganizzazione. Ma per realizzare questo obbiettivo vi sono alcuni ostacoli da superare.
Specializzazione
La divisione del lavoro implica l’esistenza di un centro direttivo dotato di competenze specifiche e di livello elevato. A ben vedere questa separazione non è così rigida. Infatti nella divisione del lavoro sono necessari due tipi opposti ma complementari di conoscenza, in linea di principio equivalenti. Da una parte una conoscenza propriamente specialistica, cioè di grande profondità ma limitata come estensione, dall’altra una conoscenza generale, cioè grande come estensione ma limitata come profondità all’essenziale. Quindi analitica la prima e sintetica la seconda. Entrambe sono indispensabili, e a questo livello il fatto che da una parte il ruolo degli specialisti sia esecutivo e quello dei generalisti sia direttivo, ha poca importanza, perché i due ruoli sono in realtà complementari e intercambiabili. Il piano preparato dalla direzione sarà frutto della sintesi delle conoscenze degli specialisti e dovrà essere passato al vaglio degli specialisti. Se ciò non accade gli specialisti sono ridotti al ruolo di semplici esecutori e questa situazione sarà determinata o dall’arretratezza tecnologica o da cause politiche. Infatti in un contesto tecnologico poco sviluppato le conoscenze specialistiche assumono il carattere di conoscenze elementari, quelle generali prendono l’aspetto di conoscenze complesse. Quindi i ruoli si irrigidiscono, gli specialisti divengono semplici esecutori di operazioni elementari, i generalisti esponenti di un sapere di alto livello e non più passibile di critica da parte degli esecutori. Inoltre i membri della direzione non sono facilmente sostituibili, ciò che impedisce una rotazione degli incarichi all’interno ed un controllo all’esterno da parte degli esecutori. Oppure la polarizzazione del collettivo di produzione in dirigenti ed esecutori può avere cause politiche, cioè l’esistenza di asimmetrie di potere. Si tratta di una distorsione dei rapporti sociali legata ad uno stato di eccezione, cioè ad una emergenza.
L’emergenza.
I problemi dell’autorganizzazione per essere risolti richiedono un grande dispendio di tempo e di energie da parte dei cooperanti, soprattutto per la sperimentazione del nuovo modo di gestione. Successivamente, definiti i nuovi rapporti, sia a livello tecnico che a quello politico, se ne possono constatare tangibilmente i vantaggi. Può anche essere che questi non si manifestino come superiorità sul piano della produttività del lavoro, ma solo su quello politico. Ma in tal caso si tratta dello scotto da pagare per il comunismo. Resta comunque il fatto che in condizioni di emergenza il tempo necessario per attuare l’autorganizzazione non è disponibile. Finora la divisione del lavoro nella forma dell’autorganizzazione è stata sempre applicata in condizioni di emergenza, cioè nel corso di una fase più o meno avanzata di transizione, ma questo è vero in generale per la divisione del lavoro in quanto tale. Infatti essa nasce con la società di classe ed è questo il contesto nel quale ha sempre trovato attuazione. Quindi è stata attuata in una società intrinsecamente conflittuale, quale è la società di classe e massimamente la società capitalistica. E nei tentativi di realizzazione in un contesto diverso da quello classista, cioè in un contesto rivoluzionario, ha dovuto essere realizzata in condizioni in cui la conflittualità ha raggiunto l’acme, cioè in una situazione di guerra civile o di aggressione esterna. Pertanto c’è da chiedersi se il centralismo che caratterizza la divisione del lavoro sia determinato dall’emergenza o se in una situazione di rapporti sociali pacificati sia possibile una organizzazione della divisione del lavoro diversa o se gli ostacoli che si frappongono a questo cambiamento di prospettiva non siano frutto di una ipostatizzazione di problemi non a priori inerenti all’essenza della divisione del lavoro, cioè dell’esistenza di diseguaglianze sociali di origine diversa.
Il pregiudizio intorno alla possibilità di una divisione del lavoro senza gerarchia è simile a quello che dovette superare la borghesia quando si trovò a dover amministrare gli affari sociali con una forma di governo diversa da quella esistente, cioè quella della monarchia assoluta, tale per diritto divino. Il problema era se una società potesse autogovernarsi senza una legittimazione trascendente. Cioè se fosse possibile sostituire la sovranità regia, superiore alla legge, con quella del popolo, che si dà le proprie leggi, alle quali nessuno può dirsi superiore. Il potere di condizionamento dell’ideologia non è da sottovalutare. Infatti l’incantesimo poté essere infranto solo con un atto radicale, la condanna a morte del re. Solo così si poté comprovare che il potere sociale non è trascendente, ma deriva dagli uomini stessi, che per essi è possibile autogovernarsi. Il problema si pone in termini altrettanto drammatici per il proletariato che si trova davanti al compito storico di portare a compimento gli obbiettivi solo in parte realizzati del borghesia. Infatti la forma di autogoverno collettivo instaurata dalla borghesia è solo parziale in quanto non contempla l’autogoverno della sfera economica, per cui esso è realizzato solo a livello sovrastrutturale. Dato che la sfera sovrastrutturale è determinata da quella economica ciò produce una forma di autogoverno mistificata, che nasconde una frattura sociale per la quale si rende apparentemente necessaria per il governo della società l’esistenza di una classe dominante che esplichi una funzione dirigente. A livello fondamentale, quello produttivo, tale necessità si manifesta come organizzazione del lavoro gerarchica, cioè con una divisione del lavoro non autogestita dai produttori ma amministrata da una direzione autoritaria, che coincide di fatto con la proprietà dei mezzi di produzione.
Quindi il problema che il proletariato deve affrontare è sempre quello lasciato irrisolto dalla borghesia: sostituire la sovranità per diritto divino della monarchia, con la sovranità della collettività su se stessa. Cioè far discendere il potere sociale dal cielo alla terra, poi attribuirlo collettivamente agli individui in quanto uguali, cioè rendere gli individui ugualmente sovrani. Il primo passo è stato compiuto dalla borghesia, che ha mostrato come il potere sociale abbia una origine ben ancorata alla terra, cioè ha il suo fondamento nell’economia. Il secondo passo, senza il quale il primo è peggio che nulla, è compito del proletariato, che a questo scopo deve impadronirsi dell’economia a porla sotto il proprio controllo, e attraverso di esso porre la collettività in grado di determinare se stessa, il che significa realizzare una autentica sovranità individuale.
GLI INDIZI
Quale possa essere la realizzazione concreta della sovranità, ad un tempo dell’individuo e della società, ciò non può essere posto a priori, ma è un compito pratico che deve attuarsi come costruzione collettiva in un rapporto dialettico con le condizioni storiche date. Ma non è necessario demandare questo compito interamente al futuro. Da una parte il superamento del presente non è un atto che magicamente cancella la realtà per sostituirla con un parto arbitrario della mente degli individui, ma esso è già attivo in forma nascente nella società attuale. Una analisi di tale realtà può rivelare molto di ciò che riserva il futuro. Ma ancor più significativi possono essere gli indizi che sono stati forniti in passato dal proletariato quando ha potuto esprimere la proprie esigenze. Queste testimonianze, sebbene sporadiche e di breve respiro, e appartenenti ad un passato ormai superato, comprovano innanzitutto che l’aspirazione del proletariato a conquistare la sovranità non è solo un’idea astratta, ma si prospetta come una possibilità storica concreta. Le principali esperienze storiche di autogoverno del proletariato sono: la Comune di Parigi, i soviet e i comitati di fabbrica in Russia e le comuni in Spagna. Qui l’indagine può rinvenire le prove concrete del carattere di forza storica che connota il proletariato, cioè della volontà di succedere alla borghesia nel completamento del suo compito storico. E della capacità di auto-organizzarsi e quindi di prendere nelle proprie mani le sue sorti, che a quel punto coincidono con quelle dell’umanità intera. Tale processo storico è identico al riconoscimento che l’esistenza di un potere separato non è una maledizione storica ineluttabile, ma ciò che finora ha impedito alle classi subordinate e in particolare al proletariato di realizzare potenzialità inespresse del carattere umano.
Tuttavia vedere tali potenzialità significa anche considerare la realtà storica da un punto di vista diverso da quello corrente, che è quello capitalista. Esso emerge nella prassi rivoluzionaria stessa quando si tende a vedere nella realtà non tanto l’autorganizzazione in atto che emerge dagli interstizi del capitale, ma piuttosto ciò che impedisce la sua realizzazione. Ma concentrare troppo l’attenzione su di ciò può portare a considerare gli ostacoli come impedimento assoluto e a porre il mezzo per abbatterli come fine. E’ ciò che accade con il conflitto, quando stretti dalla necessità di fronteggiare il conflitto si commette un duplice errore. Da una parte si considera l’organizzazione centralizzata come l’unico tipo possibile di organizzazione. Dall’altra la si considera necessaria per uscire vittoriosi dal conflitto. Si tratta di due ipostatizzazioni del conflitto che vanno quanto meno poste a confronto con l’esperienza storica, ma che hanno limiti evidenti in quanto tali. Nel primo caso è chiaro che tale ipostatizzazione significa riproporre sotto forma diversa proprio ciò che si vuole combattere. Nella seconda ipostatizzazione tale limite viene riproposto in forma attenuata. Cioè si pensa che tale uso dell’organizzazione verticistica sia solo provvisorio, e che raggiunto il fine, cioè la rimozione del conflitto, che giustifica il mezzo, tale mezzo verrà abolito insieme al conflitto che lo giustificava. E’ la teoria della rivoluzione in due fasi. Prima la dittatura del proletariato, dove il proletariato si impadronisce dello stato borghese e ne fa uno strumento di potere per sconfiggere la borghesia. Parallelamente si trasforma l’economia passando alla fase ugualmente transitoria del socialismo, applicando il principio: a ciascuno secondo il suo lavoro. Completata la prima fase diviene possibile il passaggio al comunismo, con abolizione dello stato e instaurazione dell’autogestione. Ma tale abolizione, e ancor meno l’estinzione, non si sono mai realizzate, anche dove la rivoluzione aveva vinto, come nell’URSS.
Nella prima ipostatizzazione l’organizzazione di tipo gerarchico viene identificata con l’organizzazione in quanto tale. Qui è evidente l’assimilazione del concetto stesso di organizzazione con l’organizzazione capitalista, cioè con quella che appare l’unica organizzazione realmente esistente. Cioè si ha qui la caduta del movimento storico sotto l’influenza dell’ideologia materializzata, che lo porta verso la conservazione dell’esistente. Questa tendenza può essere combattuta solo facendo riferimento ad un diverso pensiero materializzato, quello realizzato dal proletariato negli interstizi della realtà capitalistica in quanto oggettività solo apparentemente compatta. Tale realtà materiale alternativa è quella dell’autorganizzazione del proletariato sul luogo di lavoro, che costituisce il reale fondamento che sostiene il rapporto di produzione capitalistico, base senza la quale non potrebbe esistere. Infatti l’organizzazione del lavoro del piano capitalista è sempre velleitaria. Si illude di avere il controllo totale del processo di lavoro. In realtà questo gli sfugge a causa della conflittualità intrinseca del rapporto. Questo mancato controllo lascia spazio all’autonomia della forza lavoro, che può sfruttare tale autonomia o negativamente, sabotando la produzione, o positivamente escogitando modi di realizzazione delle sue mansioni più produttivi, ma utilizzandoli non per il padrone, “rubando il tempo” sui tempi di esecuzione fissati dal capitalista, usandolo per rallentare i ritmi imposti, per concedersi pause. Il rapporto tra capitale e forza lavoro certo appare come rapporto ambiguo. Da una parte può risolversi in collaborazione di classe, ma dall’altra può essere utilizzato come arma ben più temibile dello sciopero rituale. In ogni caso è il modo in cui il proletariato manifesta in forma embrionale la sua capacità di autorganizzazione. Ma ancora più importante è il fatto che se gli operai si limitassero ad obbedire passivamente agli ordini, cioè si comportassero come macchine, senza dare il loro contributo attivo alla produzione, integrando e correggendo dove necessario il piano di produzione, esso non potrebbe essere realizzato. Ciò dimostra che la capacità di autorganizzazione del proletariato è un suo carattere intrinseco, in quanto se è in grado di organizzare la produzione in situazioni di conflitto lo sarà a maggior ragione in circostanze favorevoli.
Quindi già nel presente si può osservare la capacità potenziale di autogestione del proletariato. Ma tale potenzialità si manifesta compiutamente nelle grandi fratture storiche, quando le faglie del movimento storico si mettono in azione e sprigionano di colpo l’energia accumulata in secoli di apparente inattività. E’ qui che il proletariato può esprimersi compiutamente. Qui esso dimostra di essere in grado di costruire autonomamente le proprie organizzazioni. Abbiamo quali momenti cruciali la Comune di Parigi la prima rivoluzione proletaria vittoriosa, quando non esistevano ancora i partiti moderni. Vi è poi la rivoluzione di Febbraio in Russia, che fu un atto assolutamente spontaneo, deciso dal passaggio dei soldati dalla parte degli insorti, con immediato crollo dell’autocrazia seguito dalla nascita dei soviet e dei comitati di fabbrica. Importante la vicenda delle comuni anarchiche in Spagna che videro la socializzazione della terra delle fabbriche e dei servizi pubblici. Infine i comitati d’azione nel Maggio francese che occupano il vuoto lasciato dalla crisi del regime gollista. In tutti questi avvenimenti è il proletariato che detiene l’iniziativa, non una precedente organizzazione separata da esso. E quando intervengono tali organizzazioni non spingono all’azione ma tendono a frenare l’iniziativa di un proletariato che mostra di essere più radicale dei partiti e quindi più cosciente della posta in gioco.
CONCLUSIONI
Ma non si tratta solo del fatto che il proletariato ha dimostrato sempre la capacità di autorganizzarsi. Esaminando questi precedenti storici emerge anche una differenza qualitativa. E’ chiaro che qui si fronteggiano due concezioni opposte dell’organizzazione, una frutto dello sviluppo storico del capitale, l’altra dello sviluppo del proletariato. Entrambe hanno in comune l’idea della divisione del lavoro, ma l’una la realizza mediante una rigida separazione tra attività direttiva e quella esecutiva, l’altra senza tale opposizione, o almeno non ponendola come opposizione ma come problema di controllo collettivo. L’altra differenza tra le due divisioni del lavoro è che quella capitalista ha alle spalle una lunga sperimentazione e ha quindi potuto attuare tutte le sue potenzialità, ed è concretamente, quindi anche ideologicamente visibile dappertutto. La divisione del lavoro proletaria ha potuto esprimersi compiutamente solo in alcuni momenti e per tempi molto brevi, e nella realtà del presente risulta solo abbozzata e comunque invisibile.
Questi sono gli indizi che la realtà attuale e la storia forniscono sull’autorganizzazione come potenzialità latente del proletariato. Occorre quindi procedere con grande cautela nel trattare l’argomento, visto i grandi disastri causati nel passato nell’affrontare la questione. Occorre evitare di dare per scontato anche ciò che appare banalmente vero, anzi soprattutto ciò che appare ovvio. Il fatto è che nella questione dell’organizzazione è nascosto il nocciolo della trasformazione sociale, cioè l’essenza della rivoluzione. Su di ciò non è consentito sbagliare, soprattutto alla luce dei risultati tragici derivanti dagli errori compiuti nel passato, che vanno attentamente meditati. Sicuramente tali errori non saranno più commessi perché fortunatamente la storia non si ripete, ma bisogna evitare di attardarsi in questioni inattuali e ormai già superate.
Valerio Bertello
Torino, aprile 2012.
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